BIOGRAFIA DI DANTE ALIGHIERI


8. I primi anni dell'esilio



"Uscito adunche in cotal maniera Dante di quella città" (Boccaccio), "bene che fosse guelfo, e però, sanza altra colpa" (Villani), certo per molto tempo non s'allontanò dai confini dello stato fiorentino: "ed il primo accozzamento fu in una congregazione delli usciti, la quale si fe' a Gargonsa" (L. Bruni). Egli è solo, come recita concorde la tradizione, a principiare dal Boccaccio: "Lasciati adunque la moglie e i piccoli figliuoli nelle mani della fortuna, et uscito di quella città, nella qual mai tornare non doveva". Scarsissimi i suoi mezzi di sostentamento. Saccheggiati i suoi beni di casa dai Neri trionfanti. L'unico a potergli tendere una mano fu il fratellastro Francesco, il quale, per nulla compromesso dalle vicende politiche che avevano rappresentato la rovina anche economica del poeta, poté continuare i suoi traffici in città, a non gli fu difficile mantenere, anche personalmente, contatti col fuggiasco. E le notizie che a questo provenivano da cittadini o viandanti oppure compagni di esilio provenienti da Firenze, allontanavano per il momento ogni speranza di poter rimettere piede in patria o che la situazione generale, sullo scacchiere toscano, si volgesse a proprio favore.

Anche se già da questo momento è scarsissima la sua fiducia nell'abilità diplomatica e nell'energia guerresca dei Bianchi, siamo ancora lontani dalla rottura, ed egli, d'altronde, non ha alcuna possibilità di sviluppare un proprio disegno politico. E giunge al punto di trovar conveniente, pur di tornare in patria, l'alleanza che a Gargonza prima, poi a San Godenzo in Mugello, i Bianchi sconfitti stringono coi ghibellini da tantissimo tempo in esilio. Il che fu indubbiamente un colpo di scena, sul fronte politico, l'inizio di un sistema di alleanze che sembra poter recare qualche frutto con la conquista dei castelli di Figline e di Piantravigne (primavera del 1302) e l'aiuto considerevolissimo di una potente consorteria qual è quella degli Ubertini, per rivelarsi poi un grosso sbaglio politico, dacché l'ingresso dei ghibellini nel territorio fiorentino rinfocola le preoccupazioni di altre città guelfe di Toscana, consente a Carlo di Valois di ritornare sui propri passi, pone Bonifacio VIII in condizione di raddoppiare il suo appoggio ai Neri di Firenze, e soprattutto mette costoro in grado d'incrudelire con le citazioni, i bandi, le imputazioni, le condanne.

Che Dante sia nella lista dei condannati a morte è prova che, come dice il Bruni, sia stato presente all'"accozzamento" di Gargonza, e comunque ch'esso sia avvenuto con l'appoggio e per iniziativa anche di lui. Forse fu soltanto una radunata informale, senza che tutti i capi vi partecipassero; mentre San Godenzo è altra cosa. L'8 giugno, nella pieve mugellana, convengono con Dante sedici fiorentini che s'impegnano a risarcire il casato degli Ubaldini di ogni danneggiamento che potesse derivare ai loro beni dall'imminente guerra contro Firenze. La radunata di tutto lo stato maggiore dei Bianchi, con Vieri de' Cerchi in testa, è resa ancora più pericolosa, sulle falde dell'Appennino e a poche miglia dalla città di Firenze, dalla contemporanea presenza di famiglie ghibelline che da decenni attendevano l'occasione per una guerra senza quartiere contro i governanti guelfi 'intrinseci'; tra di essi, particolarmente denso di significato l'arrivo degli Uberti, nella persona soprattutto di Lapo. La promessa di rifusione dei danni e l'ipoteca di tutti i beni dei Bianchi e dei ghibellini a vantaggio degli Ubaldini erano atti indubbiamente necessari dinanzi alla prospettiva di una guerra lunga, costosa e rovinosa; ma non certo poté essere l'unico argomento della radunata di San Godenzo, soltanto quello apparente e verbalizzabile. In realtà si trattò di stabilire tutti i modi dell'organizzazione e condotta della guerra, i limiti della resa che poteva esser chiesta ai Neri sconfitti, soprattutto la futura possibilità di un'alleanza politica tra due partitanti così lontani negl'ideali e nei programmi, e che non so quanto avrebbe potuto convivere nel tempo e, in particolare, far rivivere gli ordinamenti democratici ch'erano stati della tradizione dei Bianchi dinanzi ai tentativi di restaurazione d'istituti e costumi aristocratico-feudali che i ghibellini avrebbero cercato di porre in opera, riuscendo miracolosamente a ripetere una nuova Montaperti a distanza di 43 anni.

Ma il miracolo non si ripeté. Dopo i successi iniziali di Serravalle, Piantravigne, Gaville e Ganghereto, dopo la sollevazione di Montagliari e Montaguto, cominciano i primi rovesci, e i confederati sono costretti a retrocedere sul fronte del Mugello e di Romagna, e perdono Piantravigne (metà luglio) per tradimento di Carlino de' Pazzi, che indusse a tradire anche tre dei suoi congiunti, e pattuì col nuovo podestà fiorentino, Gherardino da Gambara, in 4000 fiorini d'oro il prezzo del suo tradimento. Altri successi dei confederati (gli Ubaldini giungono sino a San Piero a Sieve) restano però limitati all'area del conflitto, e l'agognata occupazione di Firenze sembra lontana nell'autunno, quando con l'inizio del maltempo le operazioni militari sono sospese. Non pare plausibile che Dante scendesse sul campo di battaglia, ma è certo che non si tenne lontano dalla zona degli scontri, fino al momento in cui pensò più opportuna la sua presenza in un luogo dove meglio si potesse attendere alla preparazione delle ostilità del 1303, sia nel campo militare, sia in quello, a lui più congeniale, delle intese politiche. E si reca a Forlì (autunno del 1302), alla corte di Scarpetta degli Ordelaffi, il cui ghibellinismo, tradizionale nella famiglia, non vietava di poter dar mano alle ambizioni degli esuli bianchi, dei quali diviene il condottiero. La presenza di Dante alla corte di Scarpetta deli Ordelaffi non è dubitabile per la testimonianza di Biondo Flavio, che l'aveva appresa da alcuni scritti (probabilmente una cronaca) di Pellegrino Calvi, cancelliere del signore di Forlì. Eliminata definitivamente l'ipotesi del Troya, che datava al 1308 il soggiorno forlivese del poeta, si deve ormai concordare col Barbi la data dei primi del 1303 quale quella in cui Dante poteva aver provveduto a dettare i documenti di cui parlò il Calvi, durante gli ultimi preparativi della guerra mugellana (primavera del 1303); ma credo si possa affermare con eccellente probabilità che l'arrivo a Forlì sia di qualche mese avanti, onde poter preparare la spedizione.

Anche la guerra della primavera del 1303 si risolse negativamente per i Bianchi e per Dante, il quale fu certo con Scarpetta durante tutto il periodo delle ostilità, forse anche in campo, presente all'espugnazione di Castel Puliciano, se non proprio al fulmineo e vittorioso sopraggiungere di Fulcieri da Calboli, nuovo podestà di Firenze. Un documento successivo pone problemi precisi: ché il nome di Dante non è tra i firmatari dell'atto (18 giugno 1303) di obbligazione a pagare i mercenari della guerra mugellana, mutuo contratto a Bologna con Francesco Guastavillani. Dante era già a Verona? E v'era in qualità di ambasciatore dei Bianchi presso gli Scaligeri, ovvero come semplice rifugiato politico? Biondo Flavio dà notizia dell'ambasceria veronese, e sebbene le sue affermazioni siano erronee in parte, poiché sarebbe Cangrande l'oggetto della missione diplomatica a favore dei Bianchi e dei ghibellini (il che non è possibile, data la troppo giovanile età, in quel tempo, del futuro vicario imperiale: Cangrande aveva allora dodici anni), la testimonianza dello storico forlivese è importante per confermare la venuta a Verona e la spedizione mugellana infaustamente conclusa, quando "i bianchi e ' ghibellini usciti rimasero rotti a sciarrati" tra il maggio e il giugno. Per quale motivo venne a cessare l'ospitalità veronese? Non solo per la morte di Bartolomeo, ma soprattutto per il sopraggiungere, alla corte scaligera, di una notizia che dovette sconvolgere l'animo di Dante in modo non dissimile di quel che accadrà più tardi con la discesa di Enrico VII: il nuovo papa Benedetto XI nominava il 31 gennaio proprio legato e paciaro in Toscana il cardinale Niccolò da Prato con l'incombenza di metter pace nella città di Firenze, nuovamente dilaniata dai contrasti, ora tra Corso Donati e Rosso della Tosa; né il buon Benedetto, spedendo il paciaro a Firenze ai primissimi di marzo, nascondeva lo scopo di riportare i Bianchi in città, per quanto l'alleanza di costoro coi ghibellini rendesse molto difficoltosa l'iniziativa (il 17 marzo i consigli fiorentini concedevano la balìa al cardinale). L'opera svolta da Dante nel seno della Universitas Alborum era stata troppo importante, e ancor adesso estremamente prestigiosa, perché egli non sentisse il dovere, appena giunta a Verona la notizia della mossa papale, di porsi subito in cammino per la Toscana. Allorché Niccolò Albertini manda con lettere un confratello presso l'Università, Dante è di nuovo coi Bianchi, e per il loro capo Alessandro (o Aghinolfo) e per il Consiglio stila la lettera al cardinale (verso i primi di aprile), secondo attesta il cod. Vaticano Palatino Latino 1729: lettera che deve intendersi "la notificazione ufficiale della avvenuta delibera formale, presa da tutti i fuorusciti, nella loro organizzazione e per le loro rappresentanze, di affidarsi in totum al legato pontificio, compromettendo in lui ogni trattativa di pace" (F. Mazzoni).

Altra prova della presenza di Dante in Toscana è data da Ep. II, del maggio-giugno 1304, nella quale il poeta invia a Uberto e a Guido conti di Romena una missiva di cordoglio per la morte del loro zio, il conte Alessandro. In quale località toscana Dante si trovasse al ritorno da Verona, non è facile congetturare: forse in più d'una, e senza forse tra di esse è Arezzo, giacché il 13 maggio 1304 qui Francesco Alighieri con la garanzia di Capontozzo dei Lamberti, anch'esso fiorentino, prometteva di restituire un prestito di dodici fiorini d'oro ottenuto dallo speziale Foglione di Giobbo. Francesco, che aveva dimora e lavoro fiorente in patria, non aveva alcuna necessità di contrarre mutui in altro luogo, ed è quindi chiaro che il prestito venne stipulato per "sovvenire alle immediate necessità del suo grande congiunto" (Mazzoni). E ad Arezzo Dante seguì con ansiosa speranza, poi con sempre crescente sfiducia, il succedersi degli eventi, concludendosi con la definitiva rottura di lui coi colleghi di Parte, poi spregiati con la qualifica di compagnia malvagia e scempia, poiché il distacco dalla compagnia non trova altro posto che alla vigilia dell'improvvida spedizione in Val di Mugnone, alle porte di Firenze: spedizione che Dante non volle e che in ogni modo tentò di differire. Incalzante la serie dei fatti: 18-20 aprile, arrivo dei delegati Bianchi e di alcuni fuorusciti ghibellini; 26 aprile: pace di Santa Maria Novella; qualche giorno dopo la riconciliazione tra il comune e le casate degli Ubertini, dei Griffoni a dei Gherardini di Parte bianca; 9 maggio e ss.: viaggio del paciaro a Prato e a Pistoia, e congiura pratese di Corso Donati; 29 maggio: lettera di Benedetto XI ai Fiorentini, osanna popolari ai Bianchi ma anche ad alcuni vecchi ghibellini, tra cui Lapo nipote di Farinata; tumulti dei Neri e resistenza dei Cerchi e dei Cavalcanti; 8 giugno: il paciaro consiglia Bianchi e ghibellini di uscire da Firenze; 10 giugno: i Neri appiccano il fuoco a varie case della città; stesso 10 giugno: Niccolò da Prato lascia Firenze; ultima decade di giugno: i Neri consolidano il loro potere in città. Si può reputare che in tutto questo periodo Dante, coi capi della fraternita bianca, non si movesse da Arezzo: eccellente luogo per seguire lo svolgimento dei fatti ed eventualmente per intervenire, anzi, come si spera nella prima fase delle trattative, per rientrare pacificati in patria. Tra fine giugno e primi di luglio la Universitas Alborum si consulta sul da farsi, ed è doveroso congetturare che Dante fosse tra i più attivi consiglieri, anzi riprendesse la pienezza dei suoi poteri e obblighi consiliari. Ma la situazione era profondamente mutata da quella di cui Dante era stato protagonista nel biennio 1300-1301; il poeta, forte dell'esperienza politica che ha contratto in tutto questo periodo e maturato durante il pacato momento del soggiorno veronese, non è più nel rango d'imperterrito oltranzista della lotta senza quartiere. Ha conosciuto molto bene, ormai, anche l'ambiente dei ghibellini "usciti", e sa che coi colpi di mano non si può far molto; che c'è bisogno di una situazione politico-diplomatica del tutto solida e ampia per poter sperare di rovesciare la Signoria nera. I Bianchi discutono accanitamente sul da farsi, e Dante si trova solo, o quasi solo, a combattere gl'ingenui e pericolosi ottimismi dei suoi colleghi di Parte. Viene messo in minoranza, e l'Universitas decide di riprendere le ostilità scendendo in campo contro i Fiorentini 'intrinseci'. È questo il momento in cui Dante si distacca dalla compagnia malvagia e scempia, e arroga a sé il vanto di far parte perstesso. La morte di Benedetto XI, il 7 luglio, rende ancor più precaria e pericolosa l'iniziativa dei Bianchi. Si leva il campo. Il 19 luglio i Bianchi e i ghibellini apparvero sulle alture a nord della città; il 20 luglio ha luogo la disfatta della Lastra in val di Mugnone.

Per quanto il distacco di Dante dalla compagnia dati qualche settimana avanti la disfatta della Lastra, forse il poeta non lasciò subito Arezzo, ma di qui seguì lo svolgimento dell'impresa che aveva previsto fallimentare: da Arezzo, dove la numerosa colonia di esuli fiorentini gli dava ancora la parvenza di poter far qualcosa di diverso e di costruttivo sul piano politico, e in effetti di poter sventare sino all'ultimo la partenza delle truppe per il confine dello stato di Firenze, per tentare operazioni diplomatiche in direzione diversa, per poter continuare a mantenere rapporti con la famiglia per il tramite del fratellastro. Appresa la notizia della disfatta, vanificata la speranza di rientrare in patria, Dante sente l'inutilità della sua presenza in Toscana; decide di esulare in Italia settentrionale. Non può tornare a Verona, dove signoreggia l'avverso Alboino, ma può sembrargli confacente la dimora in qualche corte che, per affinità d'ideali e di munificenza verso i dotti e i poeti, possa apparire consimile a quella ch'era stata la Verona nel tempo del Gran Lombardo. S'aprono anni nei quali è difficilissimo seguire le vicende di Dante, sovente impossibile; ma, pur con tutte le incertezze a le cautele che l'arduo caso pretende, l'ipotesi di un non breve soggiorno a Treviso, alla corte di Gherardo da Camino, s'affaccia come la più probabile, stante il ripetuto elogio del buon Gherardo, dalle pagine del Convivio alle terzine del Purgatorio. Gherardo viene a morte nel 1306, e quindi un soggiorno dantesco dall'estate del 1304 alla metà del 1306 non è impossibile, sempre che non si voglia considerare che quei due anni non siano trascorsi esclusivamente nella città della Marchia Tervisina, ma comprendano una serie di spostamenti, più o meno prolungati nel tempo; tra Padova e Venezia e altre città non lontane. Ognun sa quanto le prime due cantiche della Commedia, e in particolare l'Inferno, siano colme di reminiscenze a allusioni alla zona del Veneto. Dalle reminiscenze letterarie, non solo del poema maggiore, è possibile sostenere la presenza di Dante nel Veneto, né si potrebbe affermare in quale altro periodo avanti la composizione e divulgazione dell'Inferno possa essere ipotizzato fuori del biennio 1304-1306, prima di ritrovare con certezza il poeta mentre sale l'erta (6 ottobre 1306) che da Sarzana porta a Castelnuovo, come procuratore di pace presso il vescovo di Luni da parte dei nuovi suoi ospiti Franceschino, Corradino e Moroello Malaspina. L'annosa controversia tra i Malaspina e i vescovi-conti di Luni nasceva dalle continue pressioni che la consorteria magnatizia effettuava sulle terre sotto il diretto dominio vescovile. Se Dante accetta la nomina a procuratore, vuol dire che egli è sul posto da qualche tempo per poter fruire della fiducia di tutti e tre i rami dei Malaspina, e già doveva aver svolto altre meno importanti incombenze consiliari. E deve aver accettato di buon grado, poiché la pace col vescovo Antonio consentiva non soltanto di por fine allo stato di ostilità tra i due poteri, ma di rafforzare la posizione dei Malaspina nei riguardi del guelfismo toscano non precludendo loro la possibilità di un benevolo aiuto da parte delle autorità ecclesiastiche della Toscana, costituendo infine un precedente per quel che sarà ancora per vari anni l'assillo del procuratore: il ritorno a Firenze.

Lo scambio di sonetti tra Cino (Cercando di trovar minera in oro) e Dante in nome del marchese Moroello (Degno fa voi trovare ogni tesoro), e di quelli diretti tra i due poeti non è necessariamente riconducibile al 1306, ché vige anche l'ipotesi di una successiva permanenza di tutti e tre i corrispondenti alla corte di Enrico VII, al momento della presenza di Moroello durante la pacificazione di Vercelli (ottobre 1310). Per quanto si debba ricordare con somma cautela l'episodio narrato dal Boccaccio (ritrovamento in Firenze dei primi sette canti dell'Inferno e inoltro delle preziose carte da Gemma a Dino Frescobaldi, il quale le recapita a Moroello affinché questi persuada l'autore a riprendere il lavoro interrotto con l'esilio), il caso opinato può riguardare tanto l'autunno del 1306 quanto un'età immediatamente precedente, mai un periodo così tardo come quello dell'incontro di Vercelli.

I termini del soggiorno in Lunigiana non furono molto brevi, se poco dopo la partenza, dunque nel 1307, offertosi il Casentino come terra di breve sosta al peregrinare del poeta (forse ospite del come Guido di Battifolle), egli a limine suspiratae postea curiae separato posa i piedi iuxta Sarni fluenti, e gli appare una donna meis auspittis undique moribur et forma conformis (Ep.IV 2 ), come legge la missiva nuncupatoria della canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia. Si potrebbe in extremis postergare l'Ep. IV a un momento successivo al soggiorno lucchese, quindi subito dopo il 1308; ma non se ne vede proprio la necessità, ché il tono encomiastico della lettera tradisce il ringraziamento per un'ospitalità recente e ancora bisognosa di elogi. Lucca, invece, può star bene dopo l'episodio casentinese, perché ne riceve luce, in fondo, anche il documento della presenza del figlio 'ipotetico' Giovanni, non solo ma con gran parte della famiglia; lo stesso Barbi, oltre ammettere temporanee soste a Lucca anche prima del periodo che stiamo trattando, non è lontano dal ritenere che Lucca possa essere stata la sede stabile di Gemma Donati e dei figliuoli, appena il più giovane dei maschi, Iacopo, ebbe raggiunto i quattordici anni. Il massimo del soggiorno lucchese, raddolcito dall'ospitalità di Gentucca, si muove dalla fine del 1307 o dai primi del 1308 ai primi del 1309, giacché con editto dei 31 marzo 1309 il comune di Lucca faceva divieto agli sbanditi a ai condannati fiorentini di permanere in città e nei territori limitrofi.

Nel famoso luogo di Conv. I iii 4, in cui parla della sua pena d'essilio e di povertate, Dante fa cenno a sue molte peregrinazioni, tutte in terra italiana, senza far riferimento a viaggi oltremontani, ché, se essi vi fossero stati, avrebbe pur aggiunto gravezza maggiore alle sofferenze dell'esule, non lontano soltanto dalla sua città, ma dalla stessa Italia. La 'leggenda' del viaggio a Parigi non potrà essere situata, dunque, che successivamente all'interruzione del trattato filosofico, ovvero, in tempo più stretto, alla scrittura del primo libro, e precedentemente alla spedizione italiana di Enrico VII. Le continue peregrinazioni del legno sanza vela e sanza governo (§ 5) non rallentano mai l'attività letteraria di Dante, cui possono essere assegnati in questo primo settennio di esilio opere come il De vulgari Eloquentia, il Convivio, rime varie, e tutto o quasi l'Inferno. Se osserviamo con attenzione i due momenti meno turbati e più propizi al lavoro, l'anno scaligero 1303-1304 e il triennio lunigiano-toscano 1306-1308, si sarebbe tentati di suddividere le tre parti fondamentali di questa produzione in un modo all'incirca come il seguente: a Verona il De vulg. Eloq., la cui datazione canonica, per motivi interni al testo, è del 1303-1304; in Lunigiana il Convivio (1304-1307); a Lucca l'Inferno nella sua completezza esecutiva, non nel disegno e nella verseggiatura. Ovviamente è questo un discorso meramente schematico, giacché per vario tempo la composizione del trattato linguistico e quella dell'enciclopedia filosofica s'intrecciano e si completano a vicenda, e non si può far iniziare sic et simpliciter la composizione dell'Inferno al momento della 'crisi' che cade al termine dell'assai complesso commento alla canzone della nobiltà . A parziale prova di quanto s'è detto, è conveniente osservare che la stesura del De vulg. Eloq. non suppone un lavorio concettuale e culturale dello stesso genere di quello del Convivio, e quindi può essere stata opera sollecita e di getto, altrettanto rapidamente e bruscamente interrotta come principiata, mentre la chiusura del IV libro del Convivio avviene, si direbbe, col punto fermo; e in ciò è forse da intuire che la speranza di poter affidare a un'opera letteraria quale il Convivio, e non soltanto a evenienze politiche, una concreta possibilità di ritornare dignitosamente in Firenze venga sostituita da una speranza ancora maggiore, affidata a una grandiosa visio mistica.

I testimoni primi e primari del viaggio di Dante a Parigi sono il Villani ("e poi a Parigi, e in più parti del mondo"), il Boccaccio ("e già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave l'andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta gloria di sé disputando più volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora narrandosi se ne maravigliano gli uditori"), il Pucci, il Buti, Benvenuto, il Serravalle, ecc.; tace, invece, Pietro, e tace Leonardo Bruni. Non mancheranno, tra gli studiosi recenti, ipotesi differenti quanto al momento del viaggio. I contributi di gran lunga più importanti sull'argomento sono quelli del Rajna, il quale congettura la data del soggiorno parigino nel 1310, e anzi afferma che Dante conosceva i procedimenti e le peculiarità della scuola parigina, elemento che di per sé solo non sarebbe sufficiente, ma posto accanto all'esperienza della storia francese contemporanea e di luoghi di questa terra risulta nel complesso estremamente significativo.